58 - Domande
Sin da bambini vogliamo risposte. Poi ci dimentichiamo come si fanno le domande.
I pensieri lunghi non sono fatti di risposte. Si generano anzi partendo proprio da domande e spesso restano tali: quesiti senza risposte o raccolte di ipotesi non suffragate da fatti, illazioni, tentativi.
Alcuni pensieri lunghi sono ipotesi o dubbi. Uno che mi frulla nella testa ultimamente - forse un bias cognitivo dovuto al fatto che ne sento spesso parlare e allora sono portato a rifletterci - ĆØ che non contano le risposte ma contano soprattutto le domande.
Fare domande non è per niente facile. Fare buone domande è tremendamente difficile. Per fare buone domande bisogna mettere insieme due condizioni molto precise: essere curiosi e non temere che la nostra domanda riveli ingenuità o impreparazione. Se facciamo domande è perché non sappiamo ancora le risposte (forse non le sapremo mai) e quindi la condizione di ignoranza è implicita e non lede alcuna dignità personale.
La prima domanda che tutti ci siamo posti ĆØ perchĆ©. PerchĆ© di notte cāĆØ il buio, perchĆ© i poliziotti sono vestiti cosƬ, perchĆ© il sole scalda, perchĆ© la Coca Cola ha le bollicine. Sono le domande che ogni bambino prima o poi fa, specie a raffica, specie - oltre un certo punto - irritando gli adulti a cui le pongono. Che non sono infastiditi dallāinsistenza quanto dal fatto che dare una risposta non ĆØ affatto semplice. Spesso insomma capita che i bambini facciano domande a cui si risponde stizziti con un āPerchĆ© ĆØ cosƬ!ā. E in realtĆ non ĆØ affatto cosƬ, ĆØ che non sappiamo dare una risposta.
Quelle sono ottime domande e allora ho pensato a un altro genere di ottima domanda e non ho potuto che non pensare allāarte contemporanea.
Prima di arrivarci, facciamo però un passo indietro e cerchiamo di capire perché i bambini fanno domande. In primo luogo per soddisfare una comprensibile sete di conoscenza, per curiosità insomma. Soprattutto però le fanno per capire, per collocarsi nel mondo.
Con il tempo e con il condizionamento sociale si impara a capire che le domande espongono e rivelano lāinterlocutore. Le domande mettono a nudo chi le fa, quasi più di quanto facciano con chi deve fornire delle risposte. Ed esponendolo, lo trasformano in soggetto attivo (che pone domande) in passivo (che subisce il giudizio altrui, per come pone domande e per il contenuto delle stesse).
Col tempo si ĆØ insomma sempre più cauti nel porle, sino a che si perde lāabitudine o lāardire di farne.
à una grave perdita perché ogni evoluzione intellettuale comincia proprio da una domanda e la costruzione della cultura si basa proprio sulla volontà di trovare risposte a domande più o meno esistenziali, più o meno profonde.
La domanda ĆØ lo strumento della curiositĆ .
Dicevo che il porre domande mi ha fatto pensare allāarte contemporanea, specialmente a quella astratta e concettuale.
Senza addentrarmi in una disamina in merito - non ne ho le competenze e al più posso compensare con la curiositĆ che mi ha sempre fatto affrontare questo soggetto - si può dire che questo tipo di arte rappresenta una frattura netta nel rapporto che lāumanitĆ ha con le arti figurative e plastiche.
Abituata per secoli a concepire lāarte come rappresentazione del reale o del divino (perchĆ© lāarte ĆØ stata per secoli e millenni solo figurativa), ĆØ comprensibile come abbia accolto con sospetto e distacco un linguaggio visivo che di riconoscibile non ha quasi niente.
Ho sempre trovato che lāarte contemporanea esercitasse una notevole attrazione su di me pur non fornendomi nĆ© appigli per capirla nĆ© risposte. Ricordo che quando vidi per la prima volta al MoMA la tela nera di Abstract Painting di Ad Reinhardt risi compiaciuto, pensando fosse uno scherzo. Quello che vedevo era un quadrato nero appeso a un muro, o una tela interamente dipinta di nero. La potrei anche rappresentare con unāemoji, eccola:
ā¼ļø
Il sorriso era forse imbarazzato. Non capivo se fosse una provocazione o qualcosa di talmente geniale da risultarmi incomprensibile.
CāĆØ una celebre battuta che riguarda non solo quella tela ma in genere molte opere contemporanee: una coppia di persone ĆØ di fronte a una di queste opere e uno dice āEro capace anche io di farlaā, al che lāaltro risponde āSƬ, ma lui lāha fatta per primo.ā
Ovviamente lāarte contemporanea non ĆØ una gara a chi fa prima qualcosa che altri non hanno mai fatto. Quello che mi attrae ĆØ il fatto che - quando ĆØ buona o ottima arte - mi trovo di fronte a una domanda.
Una domanda può anche essere un silenzio, così come è silenzioso un quadrato nero che, figurativamente parlando, rappresenta solo se stesso. Un quadrato nero è un quadrato nero e se ci sei di fronte stai guardando un quadrato nero.
La grande rivoluzione dellāarte contemporanea ĆØ però unāaltra: ĆØ quella di avere la forza di iniziare una conversazione molto particolare, cioĆØ con se stessi.
Di fronte a un quadrato nero non ci si chiede cosa rappresenta (oddio, allāinizio magari sƬ) ma ci si chiede perchĆ© ci si trova in quella situazione, e cosa ci provoca guardarlo, e se ci fa pensare ad altro.
Può anche non succedere niente: in fondo la reazione a qualcosa non ĆØ lāesito di un meccanismo oggettivo che genera condizioni sempre valide ma dipende dalla sensibilitĆ individuale.
Eppure anche essere infastiditi o sentirsi presi in giro da un quadrato nero o da una composizione astratta ĆØ una reazione, cioĆØ una forma di dialogo.
Un dialogo è sempre generato da una qualche curiosità , così come una conversazione deve usare il desiderio di conoscere e capire per progredire. Una conversazione è insomma basata su domande e risposte e sul rapporto fra una ricerca di conoscenza e una fonte di conoscenza.
Per secoli questa conversazione ha avuto unāunica direzione: i dipinti e le sculture dicevano qualcosa rappresentando la realtĆ e il divino. Raccontavano di Dio o di Napoleone e davano una forma visibile a concetti o storie. Erano la forma di un rapporto fra divino e umano, emanando dal divino e illuminando lāumano. La relazione che si instaurava fra opera e osservatore era impari: lāopera - come dire - āirradiavaā mentre lāosservatore non poteva far altro che contemplare e, per usare unāespressione oggi dāuso comune, āscaricare le informazioniā che vi erano contenute. Non a caso i grandi cicli pittorici erano strumenti educativi che raccontavano storie e davano una forma al racconto biblico o a quelli popolari.
Poi questo rapporto si ĆØ interrotto. Lāarte contemporanea ha molti linguaggi e molte forme ma non ci trovo mai il divino dentro. Non ĆØ un giudizio morale - che sarebbe poi oltremodo fuoriluogo nellāarte - ma una constatazione. E non cāĆØ Dio per un semplice motivo: in queste opere cāĆØ lāumanitĆ stessa che da più di un secolo indaga su stessa più che sul suo rapporto con il divino.
Dicevo prima che la rivoluzione dellāarte contemporanea ĆØ che contiene domande. Fra queste può essercene anche qualcuna su Dio ma fondamentalmente sono domande che riguardano solo lāumanitĆ stessa e non hanno risposte. O ne hanno molteplici, tante quante se ne possono trovare in una composizione astratta.
Se però dovessi dire qual è la principale differenza fra arte figurativa secolare e astratta o concettuale direi che la prima fornisce risposte, la seconda pone domande. E facendolo, stimola a dare delle risposte.
Lo fa anche per un motivo semplice: non esiste in una dimensione morale e quindi non ĆØ soggetta al giudizio e non giudica chi la osserva. Non ĆØ unāarte che insegna (il divino, il potere) nĆ© sentenzia. Ć magari silenziosa o incomprensibile ma non rappresenta. Direi piuttosto che riflette.
Nellāarte contemporanea ci si riflette e, riconoscendoci, ci si interroga. Si inizia una conversazione con noi stessi. Si ritorna a fare domande che non si riusciva più a fare, come quelle che ci si poneva da bambini, quando Dio non esisteva e si voleva capire dove ci si trovava e cosāera questo e quello. Per capire, in fondo, chi eravamo e siamo.
Una cosa che mi ĆØ successa
La scorsa settimana ĆØ stata annunciata la seconda edizione di āMicros, un festival piccolissimoā. Ideato da Rocco Rossitto, Micros ĆØ un festival che non ha luogo e periodo di svolgimento e soprattutto ha modalitĆ di funzionamento molto singolari.
Nella prima edizione ĆØ stato una conversazione su una terrazza milanese fra 14 persone, nella seconda - chiamata ā1:100 Una mostra personaleā - ha preso le sembianze di una mostra fatta con una sola foto misteriosa che non può essere vista in nessun luogo ma che si può solo ricevere a casa.
Chi la riceve e il caso decidono in quale modalitĆ si consuma lāesperienza di questo festival perchĆ© questa foto si vede solo quando si apre la busta, e la vedono dove e come si trovano solo i primi 100 che hanno chiesto di riceverla gratuitamente.
La disponibilitĆ delle foto ĆØ andata esaurita in pochi giorni (grazie a tutti i 100 che lāhanno richiesta) ed era esattamente questo lo scopo: non quello di fare sold out nel minor tempo possibile, ma, come spiega Rocco stesso, quello di fare vivere unāesperienza che āriguarda lāinterazione personale e privata che la persona avrĆ con la mostra, la fotografia, il fotografo che lāha realizzata e il curatore che lāha pensata. Ogni giorno vediamo centinaia di foto nei nostri feed probabilmente per non più di 5 secondi. Qui spero che ci si fermi per qualche instante in più. Il contrario di abbondanza ĆØ scarsitĆ certo, ma volendo anche importanza. Ci distraiamo in continuazione, viviamo in flussi di abbondanza continui. 1:100 Una mostra personale vuole cercare di dare valore ad un unitĆ minima, alla reazione che si genera guardando una foto, una sola, in un momento privato.ā
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Ottimo pezzo, Martino. Su un tema complesso. "Quello che mi attrae ĆØ il fatto che - quando ĆØ buona o ottima arte - mi trovo di fronte a una domanda" -- questa ĆØ una di quelle rivelazioni, uno di quegli insights, che emergono sempre nei tuoi pensieri lunghi. Idee semplici, ma fottutamente complesse da raccontare. E tu ci riesci bellamente. Bravissimo. :)
bellissimo pezzo