Di Francis Bacon amo i quadri almeno tanto quanto ne sono terrorizzato. Non sono grotteschi perché il grottesco è un filtro e mette qualcosa in mezzo tra l’opera e l’osservatore: ricorre a un codice linguistico che filtra la rappresentazione e la porge come trasformata e meno urticante. I suoi quadri sono quello che sono: non sono grotteschi perché dicono quello che rappresentano, non alludono a niente altro. Azzerano le interpretazioni possibili, sono veri perché non danno via d’uscita: quello è, e una volta che si è vista la forma della verità non la si può più dimenticare né fingere che non esista.
Bacon dipingeva in uno studio che pareva modellato da un terremoto: carte ovunque, tubetti di colore mezzi usati gettati per terra o su ripiani, tele affastellate, incerte colonne di detriti, pennelli irti come spine insidiose, scritte sui muri, macerie varie.
Dopo l’iniziale stupore, ho cominciato a considerarlo una perfetta rappresentazione della sua anima. Doveva essere proprio fatta così, e da quella estraeva con violenza e sofferenza l’immagine che trasferiva su tela. La sua verità era quel delirio interiore che assumeva una forma tridimensionale: quella del suo studio.
Immagino riuscisse a trovarvi una qualche regola ma non credo anche una certa qual praticità. Credo che fosse il suo studio perché lo rappresentava ma anche perché gli opponeva resistenza. Ogni cosa era al suo posto ma era anche celata e confusa. O forse lui trovava ordine nel caos, oppure trovava quello che cercava: quel colore, quel pennello. Ma non doveva essere semplice riuscirci: non per ossequio a un trasandato programma ma perché così voleva: i suoi quadri erano sofferenti e sofferente doveva essere il processo attraverso cui arrivava a dipingerli. Era una questione di resistenza programmatica. O almeno lo penso io, perché non ho modo di affermarlo altrimenti.
La resistenza è una forza. Lo è in fisica, lo è nel mondo reale, ma quella che mi interessa è una resistenza interiore: la resistenza a fare le cose, a iniziarle, a proseguirle, a finirle. Come se solo strisciando con la pelle contro la superficie ruvida della vita si potesse capire quanto è capace di abradere, di far male.
Quando scrivo avverto una certa resistenza: è quella del foglio di carta - (anche se è immaginario, in quanto digitale): quando è vuoto non contiene un’assenza bensì la massima gravità. Il nulla pesa in massimo grado e il foglio vuoto è pesantissimo. La resistenza è l’assenza di volontà di provare a sollevare questo immenso peso dell’assenza di parola scritta.
Si dice che il momento più difficile dello scrivere è essere posti di fronte al foglio bianco perché lì, anche se invisibili, ci sono tutte le tracce possibili della storia, tutti i ragionamenti plausibili, tutte le strade e le direzioni che si possono intraprendere.
Dal foglio bianco parte tutto, nel foglio bianco c’è tutto.
La resistenza è lo spasmo della volontà che non vuole procedere oltre, che sente ogni peso, che guarda con terrore quel vuoto. In quell’assenza c’è ogni possibilità ma bisogna sceglierne qualcuna e sentire la sua voce. Scrivere, forse, è l’atto del trascrivere la voce che si sente provenire da quel vuoto. La resistenza è la percezione della difficoltà.
Ho sentito lo scrittore Steven Pressfield parlare di resistenza e mi sono chiesto in cosa io sono resistente, come la avverto, che forma assume. La stanchezza è una sua forma, la svogliatezza nel cominciare a fare qualcosa è un’altra sua sembianza, il tergiversare, il rimandare, il procrastinare. Da buon americano lui vi vede un aspetto pratico: la resistenza, dice grossomodo, indica che percepiamo quell’atto come difficile ma importante. La resistenza ci divide dallo scoprire qualcosa di fondamentale rispetto a noi stessi, qualcosa che potrebbe essere sconvolgente o risolutivo. La resistenza tende a proteggerci anche se in realtà protegge solo se stessa.
Qualche esempio potrebbe spiegare meglio quante forme essa assuma:
Il non leggere un libro ma preferirgli una svogliata consultazione di qualche social media è una resistenza
Il guardare distrattamente un video o una puntata di una serie televisiva che in realtà non si ha voglia di vedere è una resistenza
Il ripetere gli stessi schemi nel fare le cose è una forma di resistenza
Il non volersi alzare dal letto al mattino è una forma di resistenza.
Resistendo ci si arrende a una qualche forza che ci vuole impedire di fare qualcosa, di vedere, di capire.
Scegliendo di arrendersi alla resistenza si percorre la via di minor resistenza, appunto. Ci si arrende. Oltre quel limite c’è una conoscenza superiore. In mezzo c’è la fatica.
La resistenza è qualcosa che abbiamo dentro. Non so se conservi la nostra vera essenza o se le impedisca di maturare e rivelarsi. Non lo so davvero.
La metafora che la rappresenta è quella del foglio vuoto, si diceva. Il suo svolgimento potenziale sono le infinite trame che contiene. La frizione a indagare serve a tenerci nella dimensione che già conosciamo, quella rassicurante del noto, del “si è sempre fatto così”, delle cose rimandabili all’infinito, del “vedremo poi”, che è un altro modo per dire “non voglio pensarci, spero che altro decida per me”.
Eppure, come dice Pressfield, lei fa di tutto per segnalarsi e per dire che qualcosa è importante, tanto che il fatto che qualcosa venga facile è giustamente interpretato con sospetto: se era facile farlo, non valeva poi molto l’atto in sé e tantomeno l’esito. Considerazione che conduce all’ultimo punto:
La resistenza è il valore di qualcosa. Più è difficile farlo, più essa ha valore.
Spesso si nasconde, la resistenza. Ci penso ogni volta che vedo un violinista eseguire un passaggio complicatissimo con estrema fluidità o quando vedo un tennista concludere un’azione con eleganza leggera. Quei gesti vincono la resistenza perché sono l’esito di un addestramento continuo e laboriosissimo al suo superamento. Che un gesto, un’opera, un insieme di parole vengano fuori facilmente, non significa che lo siano in sé ma solo che chi li ha prodotti ha vinto ogni resistenza.
Ha lavorato, cioè - risalendo all’origine del termine labor - ha sofferto, ha faticato, ha superato un ostacolo.
Il lavoro è azione, è fare. C’è una connessione fra azione e linguaggio, ed è neurologica: le aree del cervello attivate nella gestione dei movimenti sono le stesse che producono il linguaggio, o almeno la sua parte visibile, udibile: del resto la produzione del linguaggio è una questione di suoni, e per generarli si attivano muscoli e membrane in una danza raffinatissima.
Fare e comunicare - cioè produrre il linguaggio, metterlo all’opera - hanno la stessa radice: l’azione. Il movimento - che serva a spostare un corpo nello spazio o a produrre suoni - vince la resistenza alla mancanza di azione. La contemplazione di questi due opposti - azione e non azione, o immobilismo, dovrei dire - mi ha fatto tornare in mente quello che scrive Byung-Chul Han in Le non-cose. Lui distingue fra non-azione e inazione, che ha un’accezione positiva:
Stiamo smarrendo il senso stesso dell’inazione, che non rappresenta una mera incapacità, un mero rifiuto, una mera assenza di azione, ma anzi dispone di facoltà proprie.
L’inazione è un’azione contemplativa, solo che non ha uno scopo nella società contemporanea poiché non produce niente, o almeno non in termini economici. Per lui l’inazione è come il silenzio per la musica:
Senza silenzio non c’è musica, solo rumore e baccano. È dall’inazione che la vita ottiene il proprio splendore.
Conosciamo e amiamo la musica (che è un linguaggio e viene prodotta con l’azione) grazie al silenzio, che è l’inazione rispetto al suono organizzato, cioè che ha un senso poiché è comprensibile, almeno finché non si tratta di free jazz.
Giungendo a una sintesi, l’inazione è la forza che si oppone alla resistenza, anche se sembrerebbe un controsenso: come può ciò che non agisce opporre sufficiente forza in contrasto a ciò che vincola il movimento? Può perché agisce a un altro livello semantico: è una forza più grande che non genera significato in termini produttivi ed economici ma assoluti. È un significato non efficiente, non funzionale, inutile.
La resistenza insomma nasconde qualcosa che svelerebbe una verità, qualcosa che è meglio non sia conosciuto. L’attrito e la difficoltà, almeno quelle di un certo tipo, hanno lo scopo di indicare la sua importanza, e allo stesso tempo, tentano di proteggerla dalla nostra volontà di superarla, per procedere oltre. Per vedere cosa c’è oltre il confine. Che è come l’umanità si è sempre evoluta: agendo, superando limiti, essendo stimolata dalla loro esistenza, senza sapere se abbia un senso superarlo, ma trovandolo nell’atto stesso di superarlo. È la natura della ricerca pura, dell’arte, dell’esplorazione: non cercare per trovare (che è un fine per un’azione) ma cercare per l’atto in sé del cercare (che è un’inazione).
Le cose nello studio di Francis Bacon sono la forma del caos, dell’attrito, della resistenza all’azione. Ma sono anche un memento dell’inazione, di tutto ciò che si frappone all’atto della ricerca. Sulla tela del pittore e sul foglio bianco la resistenza è esposta, i pesi sono tolti, la forma è liberata. È leggera e ineluttabile, adesso. Esiste, ed è tutto ciò che deve essere.
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Ho scritto un libro
L’ho fatto con Sandro Siviero, per BUR Rizzoli. Parla della corsa e di come cambia la vita. Quindi parla anche di vita, per estensione. In tutte le librerie fisiche e online. Lo stiamo anche presentando in giro per l’Italia.
Che splendido assieparsi di pensieri. Mi hai fatto venire in mente anche un breve libro illustrato di Carlo Fruttero che s'intitola "La linea di minor resistenza": un gioiello che ha impiegato vent'anni a scrivere, a proposito di resistenza.
Eccellente riflessione, da una prospettiva interessantissima.
In modo più prosaico rispetto a quanto hai ben descritto, vedo la resistenza come pura inerzia, come la forza di gravità contabile che ci impedisce di sforzarsi in direzione di qualcosa che i nostri istinti primordiali non vedono. Siamo attratti dalla gratificazione immediata, ma quella stessa forza ci frena laddove quella gratificazione non viene vista, o non sembra compensare il sacrificio.
Non sempre il superamento di quella resistenza porta a un miglioramento. Bisogna scegliere le battaglie da combattere, sapendo dove portano. Ma di sicuro le battaglie dell'uomo auspicabilmente-non-più-scimmia hanno tutte obiettivi al di là della resistenza, su un medio e lungo termine che i nostri istinti non vedono, se non forse dopo travagliatissimi percorsi. Di fatto, tutto ciò che possiamo ottenere di buono nella nostra vita costa, prima o poi, fatica. Come qualcuno disse, "se è buono sputa".
Ma hai giustamente sottolineato che non tutto nasce dall'azione. Abbiamo bisogno anche dell'inazione, seppur non dell'inerzia. Il contrario dello sforzo non è necessariamente l'inerzia della non-azione, ma può essere un "movimento" contemplativo, di ricerca anche gratuita. Una stasi apparente, necessaria a superare i limiti dell'incedere ininterrotto. Se ciò che è buono costa fatica, ciò che è eccellente non può prescindere da un'equilibrio tra azione e inazione.