Oggi mentre passeggiavo con la coda dell’occhio ho visto un bicchiere di carta rovesciato per terra. Vi usciva del caffè. L’ho fotografato, è questo:
Non so perché certi dettagli attirino la mia attenzione. Forse vi vedo forme, forse attivano qualcosa nel mio cervello. Credo che vi legga qualcosa, forse una composizione che trova interessante (le diagonali che si intersecano? Vallo a sapere).
Tempo fa feci un’intera collezione di quadri ispirati dai rattoppi stradali. Mentre cammino, se non guardo il cellulare, osservo i rappezzi dell’asfalto. Ce ne sono di molto interessanti. Ovviamente sono involontari e dettati dalla sola necessità di ripristinare la superficie di asfalto, eppure a volte il caso crea delle interessanti composizioni contemporanee. Questa osservazione è anche un’involontaria critica dell’arte contemporanea, o almeno di quella che assomiglia ai rattoppi stradali.
Ironie a parte, la cosa interessante è che questi rattoppi sono volontari nelle intenzioni e involontari negli esiti. E spesso questi esiti sono delle involontarie opere d’arte. Tutto ciò per dire che il mio cervello si è abituato a vedervi qualcosa, forse dei messaggi, non saprei.
Le neuroscienze definiscono la mente come il cervello in azione. La trovo una definizione molto precisa, o almeno dà una risposta alla domanda che mi sono spesso posto, e cioè “che differenza c’è fra la mente e il cervello?”
Al di là del fatto che la prima è un’astrazione e il secondo un organo, a volte si usano i due termini senza particolari distinzioni, eppure ce l’hanno. Due parole diverse non possono significare la stessa cosa, e infatti quella definizione mette ordine: il cervello è un organo e quando elabora qualcosa diventa una mente. Non credo sia ancora perfetta ma ci si avvicina molto.
Il cervello insomma - o almeno il mio - mi fa notare cose. Agisce come lo strumento della mente (che non ha occhi) e le riporta informazioni. In molti casi, nel mio caso, riporta informazioni su ciò che sta ai margini del campo visivo. Cose interessanti, o che il cervello sa che la mente potrebbe trovare interessanti. Cosa ci farò un giorno con questa raccolta di vedute degli estremi del mio campo visivo non lo so, per ora li raccolgo e basta.
Non ho un rapporto semplice con lei (la mia mente): a volte non capisco davvero come funzioni né quale direzione segua. Perché nota dettagli insignificanti? Troverò un giorno il modo di organizzarli in una qualche forma compiuta? C’è un disegno più grande?
A volte penso a lei così: vi fu un tempo eterno in cui tutte le menti vivevano libere dai corpi. Sapevano cosa fare, si nutrivano di una conoscenza liberamente diffusa, erano spensierate e impegnate in infinite elaborazioni, mentali, appunto. Poi furono imprigionate in corpi umani. Dell’età in cui erano leggere e libere avevano vaghi ricordi: possedevano delle istruzioni su come ricostruire l’unità della conoscenza ma questa pareva essere esplosa ed essersi divisa in miliardi di frammenti.
Oggi cerchiamo un senso a tutto e lo chiamiamo “senso della vita”. Credo che un altro nome per questo “senso” sia la ricerca della ricomposizione di quel disegno originario. La mente non ricorda più che forma avesse ma vuole ricostruirla. Possiede poche informazioni sulla sua costruzione, è come se avesse in mano una piccola torcia che illumina solo poche parti alla volta. Quelle parti sono i dettagli che notiamo, le correnti che percepiamo, gli odori esistenziali che annusiamo e seguiamo. Non sappiamo perché lo facciamo ma la mente lo sa, o almeno è convinta di saperlo.
Io raccolgo visivamente dettagli di cui non so bene cosa fare ma confido che la mente lo sappia.
Così osservo i rattoppi sull’asfalto, li fotografo e poi li ridisegno. Non mi danno alcuna risposta ma nel trovarli esteticamente interessanti provo una certa calma interiore, come se la mente riconoscesse una via, forse quella verso casa.
Anche il protagonista di Perfect Days di Wim Wenders osserva queste epifanie: ombre degli alberi su un muro, riflessi colorati sulle pensiline di un bagno pubblico. Per lavoro pulisce le toilette pubbliche di Tokyo. Sono bellissime toilette disegnate da architetti e designer, e lui le mantiene in una condizione igienica immacolata. “Perché ti impegni tanto” Fra poco saranno di nuovo sporche” gli dice il suo collega. Lui non risponde. Forse ha un progetto, forse è l’educazione che lo fa essere così preciso e minuzioso al lavoro. Forse segue un progetto esistenziale che non è chiaro nemmeno a lui. O gli è chiaro nell’applicazione ma non negli intenti.
Sa cosa deve fare ma non sa perché.
Azzardo questa ipotesi perché lui parla pochissimo e di lui si sa pochissimo. Si intuisce che ha una storia passata che non c’entra niente con quella presente, forse viene da una facoltosa famiglia ma ha scelto una vita semplice, fatta di routine, di cura di piccole piante che raccoglie al parco, di riti ripetuti con precisione ogni giorno, ogni settimana.
Di questo film si è detto che è un inno alla poetica delle piccole cose, del cercare significato nei dettagli e della sapienza del saperne godere. Messa in questi termini offre il fianco a chi la può sminuire in quanto poetica (la linea che divide la poesia dall’inutilità stucchevole è labile nella nostra società), definendola come una risposta fragile e inefficace alle durezze della vita contemporanea.
Come tutti i buoni film, anche questo non è un manifesto. I manifesti a volte li vedono quelli che amano semplificare per avere l’illusione di aver capito qualcosa, come se un film o un quadro dovessero sempre dire qualcosa, dovessero sempre avere un significato.
Perfect Days è una storia che Wenders voleva raccontare, che la sua mente ha deciso che andava raccontata.
Se parla di qualcosa non parla dell’importanza delle piccole cose ma del meno. Avere meno, curare meno cose, non accumulare, essere leggeri.
La si potrebbe intendere come una storia che esalta il minimalismo ma non credo si tratti di questo. Ancora una volta, non è il manifesto di un movimento, è la storia di un uomo. Che osserva dettagli minimi e trascurati e ne gode (ogni epifania è sottolineata da un suo piccolo sorriso).
L’altro tema è infatti il rendersi conto, il vedere. Lui vede le cose e risponde alle cose, con un sorriso. Il sorriso è sia una risposta all’esperienza estetica che l’immagine della soddisfazione di avere trovato un’indicazione della via che la mente sta cercando per tornare a casa, all’unità originaria.
Forse l’ho visto così solo perché avevo visto poche ore prima quel bicchiere di carta rovesciato. Forse ragiono attorno a questi temi e le cose che mi risuonano nella testa (come questo film) mi sembrano indicare particolari interessanti. Forse dice che le piccole cose in sé sono solo piccole cose ma riescono ad avere un senso esistenziale se sono intese come parti di un percorso a ritroso: da dove siamo a da dove veniamo.
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