Non avevo mai visto la Bohème né tantomeno la conoscevo. Se mi avessero chiesto chi l’aveva scritta non avrei saputo rispondere con sicurezza, forse Puccini non sarebbe stato neanche menzionato. La mia conoscenza dell’opera si ferma a Mozart. Non si ferma nemmeno, a dirla tutta: l’unica opera che conosco è quella scritta da Mozart, quindi non so bene cosa sia esistito prima di lui (e se sia esistita opera prima di lui) né tantomeno dopo. Conosco Rossini, ecco, lui devo menzionarlo, anche per le delizie acustiche che ha donato all’umanità. In quest’ambito, come anche in altri, la mia conoscenza è come una luce che illumina solo parti di un affresco molto più grande dei frammenti che vedo e conosco. Non mi fa onore ma non me ne faccio un problema e in definitiva è così che funziona il mio cervello, e del resto comanda lui.
La Bohème mi è piaciuta molto, ma questo è il dettaglio meno interessante. Quello più interessante è quanto sia moderna, quanto cioè Puccini abbia saputo usare uno strumento secolare dandogli una voce che parla un linguaggio molto moderno.
Se conosci solo l’opera classica - distinguo impropriamente, mi si perdoni - sei abituato a veder soprattutto cantanti piantati al loro posto che cantano la loro aria, reiterando l’iconografia dell’opera, e cioè quella di uno spettacolo prevalentemente statico in cui gli unici movimenti sono quelli dei cantanti che entrano ed escono di scena e qualche accoltellamento o bacio fedifrago in qua e in là, espressi comunque con rigidità innaturali. Il realismo non esiste, perché in definitiva la realtà non è l’opera, e viceversa. Nessuno dichiara di voler vendicare l’amore tradito intonando un’aria di 9 minuti e nessuno manifesta dolore piegandosi in un pianto canoro per altrettanto tempo.
La vita è persino più lenta, ma di certo un po’ più movimentata.
Le raffinatezze dell’opera mozartiana sono altre e tali da non farti sentire la necessità di vedere più realismo: chissenefrega del realismo, datemi il divino. E Mozart te lo dà.
Puccini invece richiede doti attoriali: i cantanti - pensavo mentre guardavo e ascoltavo la Bohème - sono attori che cantano, non cantanti che recitano. La scena si muove, l’occhio deve seguire movimenti continui, quelle sul palco sono persone reali diverse solo per il fatto che cantano invece di parlare. C’è un’altra realtà, evidentemente, in cui le persone non parlano: cantano.
E ci credi mentre sei a teatro a vedere l’opera: è plausibile, perché il teatro ha questa qualità, fra le molte altre: piega il tempo, lo domina, lo fraziona, lo sminuzza, lo allunga, lo accelera, lo plasma, lo cambia, lo ferma, lo sospende, lo manipola.
Il teatro non è un luogo: il teatro è un veicolo che porta in un’altra dimensione e il boccascena è un varco spazio-temporale.
In effetti, pensavo sempre guardando la Bohème, chi è a teatro guarda il palcoscenico da un gigantesco buco della serratura, perché tale è il boccascena. Si chiama “bocca” non a caso, perché è come guardare in bocca a un gigantesco animale. Forse il teatro è una balena, ecco. Il teatro è una balena nelle cui viscere succedono cose: cantanti cantano, scene si alternano, la notte dura per sempre, l’alba si illumina a comando. Il teatro è il luogo in cui l’umanità è divina, perché può creare mondi, ripetutamente.
Ogni volta che vado a teatro salgo su una navicella spaziale. Mi dispiace di non farlo più spesso ma questo non conta. Conta che la magia si rinnovi ogni volta: a teatro non può entrare il tempo del mondo, perché il teatro crea il tempo e te lo dona. Quando si varcano le sue porte si lascia dietro tutto il resto e con esso la propria vita. Questa perfetta alchimia restituisce da secoli lo stesso risultato, è un esperimento scientifico convalidato da milioni di reiterazioni della reazione chimica capace di trasformare il tempo, da dominatore, in materia, e come tale plasmarlo.
Anche un quadro è un varco: la sua cornice racchiude una finestra su un’altra dimensione e quando si guarda un quadro si sa che dietro c’è un muro ma non si è mica tanto sicuri che ci sia davvero: forse c’è quello che c’è nel quadro, che continua oltre i margini della cornice e si espande. Sono dimensioni diverse che entrano in contatto in questi varchi. Il teatro ti ci porta come una navicella spaziale, è un vascello su cui sali e con cui ti allontani dalla costa dove c’è il resto della tua vita. Per un po’ di ore sei altrove e al di fuori del flusso oggettivo del tempo, ammesso che esista.
Amo i libri, il teatro, l’opera, la musica, i film, la pittura e la scultura perché sono squarci nella realtà, perché si aprono su viste di cui altrimenti non si sospetterebbe l’esistenza. L’arte accoglie in un mondo ma lasciando aperto un varco. Poi puoi ritornare alla tua vita, ma per un po’ ti è concesso di camminarci a fianco e di vederla da un po’ distante, e quindi meglio.
E se fosse davvero questo il senso dell’arte? Di aprire varchi, di infilare un flusso temporale in un altro. Di creare anzi un flusso temporale che non rispetta le regole della fisica, perché è misurato da orologi senza lancette. Perché il tempo in una dimensione sospesa non è un tempo o ne è la sua negazione.
A volte contemplo un’opera d’arte come se osservassi i miei sogni. O come se osservassi me stesso mentre sogno.
Un pensiero che ho fatto un giorno camminando è questo: e se il sogno fosse quello in cui pensiamo di essere desti? Se insomma fosse vero che la realtà è un sogno e ogni mattina, quando ci svegliamo, in realtà ci stiamo addormentando?
Non è un pensiero molto originale, ne convengo. La scienza e la filosofia ne discutono da tempo. La mia attenzione era però concentrata su un altro dettaglio, e cioè: se vivendo nel tempo oggettivo - chiamiamolo così - stessimo in realtà sognando, la realtà sarebbe quella del sogno. I piani del sogno e della realtà sono diametralmente opposti perché la realtà - semplificando - è quella che creiamo, mentre del sogno noi siamo artefici, per quanto inconsapevoli e incoscienti.
C’è però un discrimine che ci fa capire cosa è sogno e cosa è realtà, ed è il continuum temporale che governa la realtà: ogni giorno ci svegliamo ricordando il giorno precedente e quelli prima ancora, e mettendoli in fila riusciamo a riannodarli l’uno all’altro in un filo congruente. I sogni invece non fanno parte di un palinsesto coerente, oltre a essere essi stessi in primo luogo molto incoerenti. Per questo la nostra mente sa distingue realtà e sogno.
Ecco cosa lega però arte, teatro e sogni: non c’è il tempo. Nei sogni possiamo viaggiare per minuti che sembrano anni e viceversa, nella realtà sottostiamo alle regole della fisica. Non nell’arte, non nel teatro. Sospendendo il tempo l’arte diventa un sogno, con una particolarità unica: è un oggetto mentale ma anche reale. Un quadro rappresenta un sogno ma un quadro è anche reale. L’arte costruisce ponti fra sogno e realtà e porta i sogni dentro la realtà.
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Leggo ovunque di persone che si sforzano di apparire onniscenti, che snocciolano opinioni spesso (quasi sempre) vacillanti: il tuo atto di amore e umiltà verso l'arte è una delle cose più luminose e profonde che abbia letto ultimamente. Di fronte all'arte siamo così, umili, indifesi, pronti a sbirciare in quel varco. Grazie!
Wow, grazie Martino. Sarà che in questo periodo sto seguendo coi miei nipoti il cartone e la serie a fumetti di "Avatar. The last airbender", però col tuo Pensiero Lungo hai innescato un'epifania: il dominio del tempo nell'arte. Noi umani come plasmatori del tempo in una dimensione di sogni (che siano ad occhi chiusi o aperti), comunque in quello spazio slegati dalla leggi fisiche; o meglio, in una dimensione regolata da altre leggi.