Nel 1930, John Maynard Keynes predisse che nell’arco di 100 anni gli esseri umani avrebbero lavorato solo 15 ore alla settimana. Questa previsione si rivelò poi decisamente sbagliata: oggi lavoriamo molto di più di 100 anni fa. Involontariamente rivelò però anche qualcosa che si è confermato vero negli anni seguenti, cioè l’inaffidabilità degli economisti.
Ho ripensato a Keynes non per parlare di quanto sia inutile e controproducente fare previsioni ma per il dubbio che questa previsione mi ha sempre lasciato: supponendo che davvero un giorno si lavorerà 15 ore alla settimana, cosa si farà nel resto del tempo? L’abitudine a essere occupati è così radicata che la prospettiva di una vita in cui non ci sia niente o quasi da fare per dovere e tutto per piacere più che esaltarci ci atterrisce.
Il motivo è semplice: il lavoro - almeno in mancanza di altro altrettanto sostanzioso e sostanziale - dà un senso alla vita. Lo scopo esistenziale del lavoro è la realizzazione della propria utilità all’interno della società. Non declasserei questa posizione, specie ora che il capitalismo dimostra spesso i propri limiti e il socialismo sentimentale sta acquisendo forza. (N.B. definisco Socialismo Sentimentale quella particolare sensibilità politica molto più individualista ed egoista di quanto dia a immaginare, dato che evidenzia le gesta del singolo verso la collettività più che la loro efficacia. Certe posizioni politiche insomma servono a fare il cosiddetto virtue signaling, cioè a dire - non altrettanto spesso a fare - quanto si è sensibili e umani. Ma per noi stessi, non perché questa azione porti alcun beneficio a chi ne avrebbe bisogno).
Una parte di questo tempo potrebbe essere magari dedicata alla ricerca della felicità, la “pursue of happiness” citata nella Dichiarazione di Indipendenza Americana del 4 luglio 1776. Le cose però cambiano inevitabilmente nel tempo e quel tipo di felicità non è la stessa di oggi. La stessa formulazione di “pursue of happiness” si presta poi a molte interpretazioni e ha volutamente una definizione più poetica e morale che precisa: di quale felicità si tratta? Sociale, individuale, economica, politica? Non è chiaro.
Il concetto di felicità del 1776 è insomma diverso da quello odierno, così come diverse sono la società e gli individui. Allora penso sia più utile partire dalle origini storiche della felicità e della sua ricerca. La visione per intero di più millenni di storia può fornire utili indicazioni su come è cambiata la visione che ne abbiamo, degli individui e della società.
Una brevissima storia della felicità
Ci sono elementi imprescindibili nell’equazione della felicità: sono la società (o collettività, che dir si voglia) e l’individuo. La società è un contesto che condiziona e dà senso all’azione dell’individuo; la felicità è invece sempre individuale. Non però in senso egoistico: è sempre e comunque il soggetto a sperimentarla, quindi una società felice è quella composta da individui felici, e questa è una condizione vincolante: non potrebbe essere dato l’inverso, perché per definizione una società è composta da individui e non esisterebbe società se non esistesse chi la compone. Quindi la società è una scena che specchia lo stato emotivo ed esistenziale di chi la compone: persone felici fanno una società felice, e viceversa.
Ciò che è cambiato nei millenni è il concetto di felicità. Uno dei primi a parlarne e lasciarne testimonianza (per dire che non è escluso che anche nei secoli e millenni precedenti se ne discutesse, ma lo sappiamo o intuiamo solo dalle testimonianze archeologiche) fu Aristotele, secondo cui la felicità consisteva nella realizzazione delle virtù morali, come giustizia, coraggio e temperanza. Questa visione della felicità era già centrata su l'autorealizzazione individuale ma sempre in funzione dell’integrazione nella società. Come dire: si è virtuosi e quindi felici non a prescindere dal contesto ma proprio grazie a questo. L’azione virtuosa del singolo costruisce il benessere della società e in un vuoto umano e collettivo non potrebbe essere altrettanto. Si può quindi essere virtuosi in senso assoluto ma la felicità individuale generata da una vita virtuosa riverbera e trae senso dalla collettività.
Oggi il concetto di felicità - oltre che essere più sfumato, frammentato e individuale - mi pare basato sull’individuo in senso assoluto, quindi a prescindere dalla collettività. Non si pensa più insomma che essa derivi dal rispetto di un sistema di valori condivisi che, come un sistema di comandamenti, la garantirebbero, ma la si intende più come una questione personale: si cerca e si vuole essere felici indipendentemente da cosa comunemente è inteso usando quell’espressione.
La felicità dovrebbe essere insomma l’esito di un percorso personale, esclusi i moltissimi casi in cui è concepita in chiave sociale, cioè come il risultato di ciò che la società propone come esistenza felice: una bella casa, la ricchezza, oggetti costosi e l’ammirazione (e l’invidia) collettiva.
Questo - quello cioè che esclude il tipo comune di felicità basata sull’apparenza e il possesso materiale - mi pare il modo migliore di intenderla: è una questione intima che si risolve nell’individuo, a prescindere dal contesto. E che ha come portato positivo il fatto che solo chi risolve la felicità in se stesso è felice nella collettività, e non il contrario.
Esistono del resto diverse interpretazioni di felicità e altrettante teorie sul come raggiungerla: dal già citato successo materiale e pubblico, all’equilibrio spirituale e mentale. Ognuno - risolti i bisogni elementari - ha quindi almeno due strade di fronte per essere felice: adottare il modello condiviso o tendere a un proprio, singolare concetto di felicità.
La differenza rispetto al passato è che gli studi al riguardo oggi non sono solo filosofici ma sono anche scientifici e a occuparsene è prevalentemente la psicologia. Non è strano: si tratta di una scienza relativamente nuova che, almeno nella percezione comune, è volta alla risoluzione dei problemi mentali. Alla psicologia, in altre parole, si chiede come essere felici, o almeno come non essere tristi.
C’è infine un equivoco di fondo, e cioè che la felicità debba essere una condizione continua di estasi e benessere. Non solo quindi uno stato di esaltazione e giubilo temporaneo ma uno permanente.
Se la felicità fosse una condizione costante si chiamerebbe normalità.
Siamo partiti da individui che pensano che la collettività (un esterno) sia l’ambiente ideale per realizzare un’esistenza felice e siamo giunti all’opposto, cioè a un concetto di felicità che esiste a prescindere dal contesto sociale.
C’è qualcosa che lega le due concezioni: la dimensione sociale - anche se intesa a un livello più circoscritto - è considerata ancora fondamentale. Come diceva uno dei più citati filosofi involontari dell’era contemporanea, cioè Christopher Supertramp McCandless:
Felicità è vera soltanto se condivisa.
Non si può essere felici da soli, o, per estensione, non ha molto senso esserlo se non lo si può condividere. Molti oggi concordano su questo: la felicità - o almeno la serenità, che io preferisco alla prima poiché mi pare più ragionevole - deriva dallo scambio e dall’attenzione verso e con gli altri. È insomma anche il risultato di una conversazione con altri da sé. Si recupera così la dimensione sociale, o meglio: quella originaria greca assume proporzioni più contenute e la società diventa la famiglia o gli affetti, cioè il nucleo iniziale di qualsiasi collettività organizzata.
Quando e se mai arriveremo a lavorare 15 ore alla settimana ci dedicheremo alla ricerca costante della felicità? È una possibilità. Oggi la cerchiamo dove difficilmente si può trovare: nel lavoro, nelle gratificazioni materiali e nel futuro, cioè in ambiti dove l’azione individuale è limitata o inesistente.
Eppure c’è un’attenzione particolare al riguardo: le discussioni che anni fa si facevano rispetto alla produttività oggi gravitano attorno alla felicità. Direi che ne siamo quasi ossessionati ma di certo il mio è un bias di conferma.
Parlarne è un modo per esplorarne il territorio e i confini, ed è positivo che lo si faccia, così come è positivo che vengano elaborate teorie al riguardo.
Una di quelle più enigmatiche che ho sentito ultimamente è di Derek Sivers:
La vita non è un problema da risolvere ma un paradosso da affrontare. Si può credere a una cosa e credere anche al suo opposto.
Se suona familiare è perché deriva (credo volutamente) da Soren Kierkegaard, che al posto di “paradosso” usa “mistero”: “La vita non è un problema da risolvere ma un mistero da vivere”, e non parla della possibilità che si possa credere vera una cosa e anche il suo contrario. Questa visione aggiunge un livello di complessità che la aggiorna ai tempi correnti, anche perché è ragionevole pensare che la mente umana si evolva (ce lo si augura, almeno) sino a superare il “sono vasto, contengo moltitudini” di Walt Whitman per giungere a “sono vasto, contengo più dimensioni”.
Forse il concetto di felicità dovrà dotarsi in questo senso: dovrà diventare multidimensionale e contemplare il dritto e il rovescio, il positivo e il negativo, la bellezza e la bruttezza, la felicità stessa e la tristezza.
Del resto è un discorso complesso, come ci piace dire quando non sappiamo ancora cosa rispondere.
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