Paula Scher - una delle più importanti graphic designer del mondo - racconta che quando presentò nel 1995 ai suoi partner di Pentagram la proposta di corporate identity per il Public Theater di New York fu osteggiata e criticata. Qualcuno abbandonò addirittura la riunione, sentendosi oltraggiato dalla scelta poco ortodossa della Scher di usare diverse varianti di peso dello stesso carattere, una pratica poco ortodossa e difficilmente tollerabile per i puristi della grafica.
Confesso che quando lo vidi per la prima volta anche io pensai che non fosse un logo particolarmente bello, o non ne colsi una particolare qualità.
Quel logo è oggi considerato come uno dei migliori disegnati dalla Scher, oltre che uno dei più riconoscibili e amati dai newyorkesi. I motivi sono diversi: è molto leggibile, è categorico e assertivo, ha la capacità di integrarsi nella grafica urbana di New York, sembrando familiare e nuovo allo stesso tempo.
Quello che a prima vista sembra un approccio pigro nell’affrontare un redesign così importante (usa infatti un font molto diffuso) ha in realtà molte qualità. L’uso delle diverse varianti di peso dello stesso carattere ha, per esempio, la capacità di suggerire una certa tridimensionalità, dato che si ha l’impressione che la P sia la lettera più vicina a chi osserva, mentre le altre - disposte in un diminuendo del loro peso tipografico - sembrano allontanarsi in una fuga prospettica. Pur trattandosi di una grafica decisamente bidimensionale, insomma, la percezione che se ne ha è tridimensionale e quindi architettonica.
Come spesso accade, le migliori idee sono apparentemente molto semplici: ciò che non sempre è facile notare è che la semplicità è la superficie di una complicata sintesi mentale. Gli elementi in gioco sono infatti: il peso di un’istituzione, il suo ruolo nel contesto sociale e urbano, la sua riconoscibilità e accessibilità, la capacità della grafica di uscire dal piano per assumere un peso quasi architettonico e fisico.
Quello che trovo interessante in questa storia sono gli atteggiamenti antitetici della Scher e di alcuni suoi partner. Lei usò gli elementi della grafica e della tipografia in modo libero - li usò come oggetti mentali prima che come strumenti del mestiere - mentre gli altri partner di Pentagram li leggevano con gli occhi dell’abitudine e della pratica consolidata: un prodotto grafico deve usare un numero limitato di caratteri diversi e in altrettante limitate variazioni di peso. La Scher scelse un approccio evolutivo, e non vi è evoluzione senza cambiamento.
Il cambiamento è misurabile nello scarto fra ciò che era e ciò che è e contiene il seme di ciò che sarà. Da cosa nasce però il cambiamento, o quantomeno il desiderio di cambiare?
Ultimamente cerco sempre di isolare le cose negative e di capire quanto contengono di positivo. Quello che intendo è che non sempre (mai) le cose sono esclusivamente positive o negative. Con “cose” intendo un ampio spettro di significati: fatti, accadimenti, sensazioni, emozioni.
La nostra cultura tende a considerare alcune emozioni come negative, e pertanto le fugge. Basti pensare a come affrontiamo la tristezza, l’ansia, la paura. Per dirne solo alcune che ormai vengono solo rimosse, per esempio con i farmaci.
Eppure se esistono, un motivo ci deve essere e credo sia che hanno un’utilità.
Per esempio: constatando che un sentimento molto frequente nel dibattito pubblico è l’insoddisfazione (non la frustrazione: quella risulta dalla cattiva gestione dell’insoddisfazione, e non solo) mi sono chiesto se non avesse anche uno o più connotati positivi. A cosa serve insomma essere insoddisfatti?
Per capire meglio, si può ragionare per assurdo. Cosa succederebbe se tutti fossero soddisfatti della propria vita, della società, dell’universo?
Si verificherebbe una condizione simile all’ipotesi che tutti fossero felici: una noia mortale.
In altre parole, se a tutti, contemporaneamente, tutto andasse bene esattamente com’è, non ci sarebbe nessuna evoluzione. Qual è infatti una delle forze generatrici del cambiamento? L’insoddisfazione per lo status quo.
Se quindi essere insoddisfatti genera disagio, lo scopo è dare l’avvio a un movimento di superamento del disagio e di risoluzione dell’insoddisfazione.
Concludo.
Tutti noi ci raccontiamo delle storie. La nostra vita è il risultato di ciò che ci accade e delle storie che ci raccontiamo per affrontarlo. I partner di Paula Scher erano abituati a raccontarsi la storia che i font vanno usati sempre nello stesso modo. Ne ricavavano sicurezza e soddisfazione perché l’utilizzo “a regola” dei font rientrava in una narrazione precisa e consolidata.
Poi arriva Paula Scher e cambia tutto. Fa una cosa inaudita, propone l’improponibile. Cambia la narrazione.
Le regole sono le strutture su cui poggia la narrazione, su cui vengono edificate le storie. Quello che spesso si dimentica è che le regole cambiano, per forze naturali e incontenibili, meno spesso perché il cambiamento è introdotto da qualcuno.
Io credo che quel qualcuno sia molto spesso l’artista che conosce le regole al punto da poterle stravolgerle, evolvendole. L’artista vede il futuro e la storia del futuro non è ancora scritta. Lui la può anticipare, facendola vedere attraverso la sua arte. Ancora una volta, è l’insoddisfazione per il linguaggio corrente e compreso da tutti che non lo soddisfa: non dice tutto quello che si può dire, non dice quello che lui vuole dire. Allora usa uno strumento che i più grandi artisti sanno usare con maestria: destabilizza. Mette in crisi la condizione di equilibrio della narrazione, cambia la storia. Cerca un nuovo punto di equilibrio che è sempre preceduto da una crisi, da uno smottamento.
E quando ha creato una nuova configurazione di equilibrio si guarda attorno per cercare di metterla ancora in crisi. Perché il suo scopo è la ricerca e l’evoluzione, non la reiterazione di un modello statico. Perché è insoddisfatto, e ha saputo trasformare quella che il pensiero consolidato considera una maledizione in una forza generatrice che sposta i significati verso territori inesplorati. Sempre mosso dall’insoddisfazione e terrorizzato all’idea di annoiarsi.
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Grande, che puntata! Non conoscevo la storia di Scher, bellissimo quando dici "scelse un approccio evolutivo". Dovrebbe essere la regola per agire in ogni contesto, essere sempre apertə al cambio di narrazione, cioè escludere dal pensiero la parola 'definitivo'.
Grazie Andrea! Gliel’ho sentita raccontare in un podcast, mi è sembrata molto interessante e indicativa di un atteggiamento, appunto, “evolutivo”. Tra l’altro lei è una persona molto empatica, pur se consapevole delle sue incredibili capacità.