45 - Montagne
Le Otto di Paolo Cognetti (e del film tratto dal libro) e le montagne filosofiche
C’è un bel film adesso al cinema: si chiama “Le Otto Montagne” ed è fedelmente tratto dall’omonimo libro di Paolo Cognetti. Quando guardo un film tratto da un libro che conosco bene e che ho amato cerco di non aspettarmi niente: dovrei dimenticarmi prima il libro per rinnovare eventualmente l’incanto o, se non ci riesco, dovrei non pensare al libro. Il rischio è di essere delusi o di trovare deludente il libro a posteriori (nel caso il film riesca a essere pure meglio). In questo caso posso solo dire che il film è, appunto, fedelissimo. A tal punto da essere precisamente il film che mi ero fatto in testa leggendo il libro (mi faccio sempre film in testa, sono una persona molto visiva, o visuale, o come si dice).
Non so dire se questo sia un problema o meno: può significare che il regista (o i registi, in questo caso) non c’hanno messo molto di loro e non hanno interpretato, oppure che hanno rispettosamente dato un’immagine - la più precisa possibile - alle parole.
In questo caso trovo che sia un pregio che il film stia un passo indietro al libro, anche perché lo fa con intelligenza. Il libro aveva (ha) mille sfumature e sottintesi che è difficile rendere nell’azione filmica e invece quella voce interiore del protagonista Pietro si sente e spiega quella vicenda, ne dà una profondità. Il film è apparentemente didascalico o piatto, oppure solo lineare e aderente nella narrazione: in realtà riesce a costruire un edificio complesso e pieno di profondità e luci e ombre e materiali per dare una forma possibile a un libro in cui la montagna è la protagonista silenziosa ma sempre presente come la gravità dell’amicizia fra due uomini, e di come sono diversi e pertanto attratti l’uno dall’altro.
A questo punto però, come nei migliori libri (e film) in cui un altro possibile protagonista è il lettore (o lo spettatore), ci sono io, in rappresentanza di chi ha letto il libro o visto il film.
Il mio criterio di valutazione di un libro o di un film o di qualsiasi opera d’ingegno è molto semplice: se ci penso dopo averlo chiuso o visto, allora ha una qualche qualità perché ha attivato qualcosa nella mia mente. Il bello di questo sistema è che vale sia per le cose belle che le brutte, sia per ciò che mi è piaciuto che per ciò che non mi è piaciuto: se ci penso ancora a giorni di distanza allora quelle cose hanno una qualità. Almeno per me.
Le Otto Montagne mi hanno messo di fronte, ancora una volta, al rapporto conflittuale che ho con la montagna. E parlo del senso filosofico della montagna, non della montagna in sé. (La montagna è ovviamente ignara di avere un senso filosofico, quello ce lo vede solo l’uomo: la montagna sta, e basta).
Le montagne sanno di essere montagne, noi non sappiamo cosa siamo o cosa voglia dire essere noi stessi (c’è differenza). Loro stanno immobili e noi ne siamo attratti perché sembrano avere risposte. Forse lo pensiamo, perché non credo che loro nemmeno se le pongano delle domande: sanno cosa sono, e noi non sappiamo cosa siamo.
Le montagne sono metafore della staticità (o del lentissimo e impercettibile cambiamento) e questo ci attrae. Noi scorriamo in un fiume, anzi il fiume ci fa scorrere, noi ne siamo solo trasportati, al più riusciamo ogni tanto a cambiare direzione. Noi umani apparteniamo al mondo del cambiamento, ci evolviamo o involviamo, cambiamo anche senza volerlo perché siamo cambiati. Resistiamo al cambiamento perché non vogliamo perdere quelle poche labili certezze che abbiamo, ben sapendo che non ve ne sono.
Le montagne stanno lì, da decine di migliaia di millenni. Devono avere delle risposte che noi non riusciamo a capire ma sappiamo che le hanno. E allora le scaliamo, le camminiamo, le vogliamo conquistare anche se loro hanno da sempre conquistato noi, ci hanno fatto ombra, ci hanno protetto o lasciati indifesi.
Un altro estremo filosofico di questa narrazione è il mare, che è indefinito per definizione: si congiunge con l’orizzonte in un punto lontano che è una linea ma non ha misura, potrebbe essere centinaia, migliaia, decine di migliaia di chilometri più in là. Così tanti che non ha senso pensare a quanti siano. Una montagna ha invece una forma e una dimensione. La vedi ed è lì. E dopo che hai pensato che è lì pensi a da quanti millenni è lì, così, in quella forma. In sé trattiene e contiene la forza che l’ha plasmata in quella forma, che da piatta placca l’ha elevata a quelle altezze. In quella forza trattenuta c’è imprigionato il tempo. Il tempo che c’è voluto per costruire quella montagna in quella forma.
Il mare ti dà l’impressione di avere milioni di risposte tanto quanto sa essere infinito e mutevole, la montagna no, o se le ha le trattiene nella roccia di cui è fatta.
Ho anche capito che la montagna non mi rifiuta e non è nemmeno vero che affinché ti accetti devi conoscerla e conoscere i nomi delle sue vette: i nomi delle cose sono affari umani e le montagne non sono umane. Rispettare la montagna vuol dire non lasciare tracce - dice la saggezza popolare - significa non modificare il suo equilibrio ma non credo che la montagna si curi di quello che facciamo, siamo un pulviscolo su di lei, siamo poca cosa.
Guardo la montagna che non dandomi risposte mi dice l’unica cosa importante: niente è davvero importante in senso assoluto. Io sono una montagna e sto così, da centinaia di migliaia di anni. Non mi faccio domande ma sto, e così sia.
Una montagna non ha risposte perché quando la interroghi non ti dice che non ci sono risposte, ma che le risposte non hanno senso. Ce l’hanno qui e ora, ma in un tempo infinito non hanno alcuna importanza. In relazione a noi stessi forse, ma in senso assoluto e in una scala temporale lunghissima non ce l’hanno. Le montagne sanno di essere montagne e noi uomini sappiamo di essere uomini ma non ne capiamo bene il senso. Forse anche la montagna ci guarda e pensa a cosa siamo. Non si chiede perché siamo così. Nella sua dimensione temporale niente ha senso se non essere una montagna. Sapendo di esserlo.
Forse l’unica risposta è che bisogna accettare che il tempo ti modifichi. La risposta è che dobbiamo diventare montagne, e dimenticare di essere uomini.
Un disegno
Poco più di un anno fa, era ottobre, grazie a Einaudi ho avuto la fortuna di conoscere Paolo Cognetti nel suo rifugio. Ne ho scritto qui e quindi non mi ripeto. Quel giorno gli regalai un disegno che avevo fatto per lui: è una foglia di acero che pare un albero la cui ombra diventa quella di una betulla. Sono due alberi che per lui hanno un particolare significato, non ricordo se portati da qualche viaggio o trovati lì.
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