Qualche giorno fa ho compiuto 51 anni. Di solito il giorno stesso scrivo una lettera a me stesso e la pubblico. È una riflessione sul punto a cui sono arrivato e la direzione che intendo prendere, che poi è una continuazione della strada che sto già percorrendo.
Questa volta non sono riuscito a pubblicarla lo stesso giorno e la scrivo ora, non so nemmeno quanto ci metterò a finirla o se la finirò. Se qualcuno la legge è perché è finita, perché l’ho pubblicata, mi pare evidente.
Più invecchio, meno mi interessa festeggiare i giri attorno al sole, quindi non ci bado. A ben pensarci, l’unica osservazione degna di rilievo che posso fare rispetto al trascorrere del tempo è quanto sembri sempre più un vortice che risucchia tutto.
Quanto fottutamente veloce sembra procedere tutto.
Non è strano ed è una percezione individuale. A quattro anni, un anno della vita è un suo quarto, a 51 è 1/51. Il tempo fa il tempo e scorre assoluto, sono solo io - siamo noi - a percepirlo diversamente. Una volta pensavo “Beh, è fra un mese, c’è tempo”, adesso penso “Fra un mese è domani”. Da giovani il tempo è una dimensione infinita perché pare esservene in abbondanza, in quantità così cospicua da essere infinita. Ma queste sono considerazioni ovvie e che si possono fare a qualsiasi età. L’unica differenza è che quando si è giovani sono astrazioni, dopo una certa età sono vita.
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Non è un caso che il tempo sia una delle riflessioni su cui torno più di frequente. Non amo dividerlo in unità, so che c’è chi si diletta in questo calcolo, per concludere di quante settimane o giorni disponiamo mediamente. Sapere che son centinaia o migliaia aggiunge un’informazione statistica e niente più. Come sempre conta cosa ci si fa col tempo, no?
C’è solo una frazione a cui presto attenzione: quella che definisce questa età come “la mezza età”. Il che comporterebbe che sia logico aspettarsi di campare fino a 100 anni. Non è escluso ma mi pare più ragionevole pensare di avere superato i 2/3 del tempo su questo pianeta. Diciamo: statisticamente sto in quella regione.
Allora mi dico che per 2/3 della mia vita ho proceduto secondo una direzione (o più) e sono giunto a questa terra più o meno decentemente. È un buon motivo per proseguire seguendo questa mappa? La mappa dice il territorio e come raggiungere la meta e per quali strade. Mentre si procede ci si accorge che la motivazione per procedere cambia: dove vai, pellegrino? Cerchi la stabilità emotiva o quella economica? Cerchi la gratificazione intellettuale o affettiva?
Allora a un certo punto mi son detto che la destinazione è nota, meno la direzione. Un giorno, mentre camminavo, ho avuto uno di quei pensieri che ho mentre cammino: ho pensato che l’ossessione per la durata della vita nasconde un dettaglio per niente secondario, o non lo fa ben vedere.
Non conta a che età si muore, ma come ci si arriva.
Non penso molto alla morte, anche se ne scrivo spesso. Penso sia un’inevitabile interlocutrice con cui dialogare. Nel tentativo ossessivo di vivere più a lungo possibile mi pare si nasconda proprio la volontà di ritardare questo dialogo, di posticipare il momento in cui ci si troverà di fronte a lei.
Eppure è un dialogo che si può iniziare in ogni momento, lei c’è sempre. Non ci parlo, è chiaro, però so che c’è e averne un dialogo significa anche riconoscerla come un’entità con cui parlare.
Di lei so che è un limite ma non avevo mai pensato che potesse essere anche positivo: la sua esistenza - che limita quella umana - offre anche uno scambio: è il valore della vita. Più se ne vuole esprimere, più avrà senso aver vissuto. Più si tenta di allontanare il fatidico momento, più tempo si vorrebbe egoisticamente avere per fare qualcosa di valore, un giorno, ma con calma.
È un’urgenza positiva insomma, quella di fare il più possibile, adesso. Ma non vorrei nemmeno introdurre una componente temporale. Non conta farlo adesso, subito: conta piuttosto fare qualcosa che abbia valore. Per se stessi, per gli altri.
A 51 anni insomma ho deciso di cercare un rapporto con la morte. Una volta scrissi che, da un certo punto in poi, mi interessava piuttosto prepararmi alla morte e non c’era nessuna mestizia in queste parole. La vita è un viaggio con una direzione precisa e conta la compagnia e le cose che porti con te.
Meno possibile, di ottima qualità, e non serve altro. Ogni possesso è una zavorra, ogni nodo irrisolto è un freno.
Semplificare, alleggerirsi, impegnare il tempo in cose che abbiano senso.
51 è un numero che mi pare indefinito. I numeri pari sono solidi, quelli dispari sembrano incerti sul da farsi. Il 51 prepara il 52, è uno iato fra 50 e 52. Anche il 53 e il 55, ma il 55 son due 5 che si rinforzano. In un certo senso è un numero pari.
La mia regola - per alleggerire questo scritto che sin qui ha parlato di morte - è che associo i numeri dispari ad attività sgradevoli e i pari a quelle gradevoli.
La sveglia è sempre puntata su numeri dispari, perché svegliarsi non è bello, di certo sognare è molto più bello
Il volume della televisione - almeno di quelle che lo indicano con i numeri - deve sempre attestarsi su numeri pari. Perché guardarla è bello. O almeno lo era, non la guardo più da anni, con immensi benefici.
Basta, ho già finito le regole.
Insomma: sono nell’anno della sveglia e non del volume. Non che ciò debba significare che sarà sgradevole. Sarà un anno, un altro anno. Che scorrerà sempre più veloce, con sempre più urgenza di fare le cose.
Urgenza, perché poi? Ho sentito di un maestro del tè che ha fatto solo quello per decenni. Non è l’unico, credo che tutti i maestri da tè con questa ambizione e progetto di vita diano per scontato che per fare una cosa devi farla senza cedimenti per lunghissimo tempo. Una sola cosa. Gli apprendisti fabbri che forgiano le katane hanno apprendistati altrettanto lunghi.
Non fanno un lavoro: diventano il loro lavoro. Ma in modo più spirituale e di certo non perverso come noi.
Si diventa quello che si pensa, diceva quello. Si diventa anche ciò che si fa, perché poche cose come il lavoro coincidono con l’identità. Del resto quando si conosce qualcuno non gli si chiede che passioni ha ma che lavoro fa. Che è un modo comprensibile e funzionale per iniziare una conversazione ma indica anche quanto siano poca cosa al di fuori di ciò che si fa per vivere. L’identità non è più fatta di moltitudini whitmaniane ma di una sola: quella del lavoro.
Dino Gavina - che Wikipedia definisce imprenditore, designer ed editore, ma che fu soprattutto un monumento al design e all’arte del secolo scorso - aveva un bellissimo biglietto da visita. C’è da dire che era talmente noto che poteva omettere professione e dati di qualsiasi natura, ma insomma, il suo biglietto diceva solo:
Dino Gavina
Sovversivo
Che bello presentarsi così, no? Non imprenditore, non artista o designer: sovversivo.
Un’identità che non riconduce a categorie ma che stimola la fantasia. Un imprenditore, un designer e un editore sono in fondo ruoli, non identità. Una volta pronunciati e pensati evocano solo professioni, e anche ben precise.
“Sovversivo” è l’inizio di una storia interessante che Dino Gavina donava a chi porgeva il suo biglietto da visita. Ci fosse stato scritto “Imprenditore”, chi lo avesse ricevuto poteva capire più o meno cosa faceva quell’uomo così curioso. Ma “sovversivo”? Cosa fa un sovversivo? Difficile saperlo perché ognuno ha un’idea diversa di sovversione. Rivoluzione? In quale campo? Scherza? Magari è un biglietto provocatorio o magari lui si riteneva davvero un sovversivo, ma quale ordine sovverte, a ben pensarci?
Quando l’identità è una professione o un lavoro non vi è alcun incipit interessante per una storia: una professione circoscrive l’identità e la costringe in confini angusti. Non è dinamica, non sviluppa azione: è una definizione soddisfacente perché riconduce le persone a ruoli precisi e le riduce alla loro professione.
Quindi invecchio e continuo a scrivere questa storia, o a recitare un copione che non conosco se non giorno dopo giorno. Siamo sceneggiatori della nostra storia - si dice - solo che non conosciamo quale sia la storia.
Allora è meglio viaggiare leggeri, chiedersi sempre se qualcosa valga il tempo che ci si impiega a farla, e ballare ogni tanto. Anche da soli, di notte, quando si sente una bella musica. Ballare, immaginando di saperlo fare, facendolo, anche su un pezzo jazz, ma ballando, soprattutto. Perché il tempo passa comunque e allora è meglio cercare di andarci, a tempo.
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Ho scritto un libro
L’ho fatto con Sandro Siviero, per BUR Rizzoli. Parla della corsa e di come cambia la vita. Quindi parla anche di vita, per estensione. In tutte le librerie fisiche e online.
Bellissima la storia di Gavina e del suo biglietto da visita. Ora devo trovare una parola da mettere sul mio!
Grazie per questo regalo di (tuo) compleanno, come sempre, e buon anno della sveglia! Che sarà pure una cosa poco piacevole, la sveglia, però è il suono di un inizio, è un avvio, è un'alba e una partenza :)