Che gli artisti debbano essere spiantati, miserabili e vessati dalla vita e dalla perenne carenza di denaro è una di quelle verità che non vengono quasi mai messe in dubbio. È una vera e propria narrazione - come si ama dire oggi (e non narrativa, come spesso viene tradotta impropriamente dall’inglese narrative) che li dipinge come creature irrimediabilmente romantiche, nell’accezione che dicevo qui. Cioè destinate a subire come una condanna la loro vocazione.
Che un artista sia povero è la regola e che possa essere ricco è l’eccezione, come se un artista non possa anche essere un buon imprenditore di se stesso, come se fosse deprecabile che sappia anche come sfruttare a proprio vantaggio le regole del mercato, come se fosse disdicevole che sappia come vendersi (del resto parliamo pur sempre di un mercato).
Alcuni fanno risalire l’origine di questa particolare natura dell’artista al Rinascimento e più in particolare a Michelangelo Buonarroti, che è sempre stato tramandato e raccontato come una creatura geniale ma sofferente.
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Anni fa lo storico dell'arte Rab Hatfield ebbe l’occasione di esaminare i suoi registri bancari, scoprendo che egli era tutt’altro che povero. Di certo all’immagine sofferente e indifferente ai beni materiali aveva contribuito lui stesso, lamentandosi con i committenti delle sue precarie condizioni economiche, anche per suscitare una qualche forma di finanziaria empatia e per sollecitarli a pagare, in modo da veder realizzate le opere che gli avevano commissionato.
Michelangelo insomma manteneva per indole uno stile di vita frugale - era sempre vestito allo stesso modo, abitudine che lo rendeva trasandato e poco incline a indulgere sull’estetica personale - ma probabilmente, da abile uomo d’affari quale era, aveva anche intuito che poteva usare il suo trasporto per il minimalismo esistenziale per far leva sui committenti e per suscitare una forma di empatia e compassione in chi lo frequentava.
Eppure alla fine della sua vita egli accumulò una fortuna considerevole grazie alle commissioni di papi e principi e alle proprietà immobiliari che nel frattempo aveva acquistato. Per il soffitto della Cappella Sistina venne pagato circa 3400 ducati d'oro o per la statua del David 400.
Rab Hatfield ha stimato che, al momento della sua morte, il suo patrimonio ammontasse a circa 50.000 fiorini, una somma che all'epoca superava la ricchezza di molti principi e duchi. Il suo valore attualizzato è collocato infatti tra i 47 e i 50 milioni di dollari. Non esattamente un poveraccio.
Eppure la percezione che lasciò di sé fu quella dell’artista sofferente e in difficoltà economica. Per l’avidità dei suoi committenti, e non di certo per la sua incapacità imprenditoriale che possedeva invece in tal grado da far credere di non possederla affatto.
Ma non è delle ricchezze di Michelangelo che mi interessa parlare quanto piuttosto del fatto che sia stato - oltre che un sommo artista - anche uno dei primi a essere consapevole del potere della narrazione. Nel suo caso, quella di se stesso. Un altro suo capolavoro meno noto eppure altrettanto potente fu insomma come forgiò la sua immagine di artista, oltre a quella delle sue opere.
Eppure questa è solo una parte della storia, cioè quella funzionale al suo obiettivo contingente, ossia di sembrare povero. L’altra è invece quella che era nota ai suoi committenti, che alla fine dovevano pagarlo. Michelangelo contribuì insomma anche a dare un valore ai servigi dell’artista, facendosi pagare lautamente per i suoi sforzi.
Ora ci vorrebbe un esperto del Rinascimento per spiegare esattamente come gli artisti fossero percepiti al tempo, e poi uno storico economista a spiegare perché quest’aura così abilmente costruita si sia spenta nei secoli, per arrivare alla percezione contemporanea dell’artista che è visto come un romantico esistenziale, ossia come uno che si illude che la sua arte possa dargli diritto d’essere pagato, come se facesse qualcosa di utile per l’economia e la società. Quale ardire.
E Michelangelo non era nemmeno l’unico a farsi pagare bene. Un altro era Raffaello che, per la brevità della sua esistenza su questo mondo (37 anni contro gli 88 di Michelangelo) non accumulò altrettante ricchezze ma che visse non facendo mistero di amare i lussi e i piaceri, tanto che il Vasari alluse alla sua inclinazione per le donne come causa della morte prematura.
Per una serie di comprensibili circostanze insomma, in quegli anni gli artisti avevano uno status sociale che oggi non è più attribuito ai loro contemporanei. Ma forse cambiano le professioni e le società, i costumi e le usanze, e i Michelangelo o i Raffaello di oggi sono i registi o i musicisti, quelli però di più grande successo. L’arte è una degna professione (nel senso di denaro con cui ce ne si appropria) solo se genera un capitale proporzionale.
Quello che in verità mi interessa è però il potere delle narrazioni, cioè la capacità che hanno sempre avuto e hanno ancora le storie di generare idee capaci di radicarsi nella mente delle persone. Tornando a quegli anni e anche prima, l’idea che re e principi fossero investiti di qualche potere divino o soprannaturale faceva parte della narrazione, e spesso proprio la narrazione afferiva a entità supreme per sostanziarsi.
Una volta lessi una frase - non ricordo di chi - che portava l’attenzione su un fatto incontestabile: i re erano i discendenti (o erano loro stessi) di sanguinari predatori che avevano avuto il solo merito - se così si può definire - di uccidere e depredare più nemici.
L’istituto della corona è insomma una forma di legalizzazione del tribalismo più puro.
O l’esito di un’allucinazione collettiva, e cioè che il più violento abbia qualche diritto in più degli altri. A uccidere a sua volta e a possedere e a esigere tributi dai suoi sudditi. Parte dell’antipatia di cui le religioni secolari - non tutte ma molte - soffrono deriva proprio dal fatto che sono state usate per giustificare il potere di questi individui, o sono state cinicamente usate da questi per perpetuare il loro potere.
Il potere è del resto una forza capace di piegare i destini di intere nazioni e popolazioni. È un magnete irresistibile che genera un movimento, e con esso alimenta la propria esistenza. Per esistere, il potere ha bisogno del potere.
Non si presenta solo sotto forma di sopraffazione militare o economica. Ce n’è una culturale che ha radici lontanissime, rinascimentali appunto (anche se non escludo che esistano esempi precedenti).
Ne avevo sentito parlare in merito alla Firenze Rinascimentale, la culla del Rinascimento, come giustamente è ricordata (lo ricordo perché, curiosamente, almeno per noi italiani, cosa sia il Rinascimento e come si collochi nel flusso della Storia non è così scontato, ma ci arrivo dopo). Firenze, quella dei Medici, era una città ricchissima e povera di difese. Era facilmente aggredibile da un esercito e altrettanto facilmente conquistabile. Eppure non accadde.
La spiegazione - una possibile - è che l’intelligenza strategica e politica dei Medici si espresse in un modo nuovo e imprevisto, facendo leva anche su un capitale insospettabile: quello culturale.
Firenze era una città-stato estremamente ricca essendo capitale dell'industria tessile e del settore bancario, ma non era difesa da alleanze militari ed era anzi priva di una nobiltà diplomatica, dato che accidentalmente aveva eliminato i suoi nobili locali. La sua reputazione internazionale era inoltre quella di una città dedita alla perversione e alla sodomia.
Come nota la storica Ada Palmer in Inventing The Renaissance, per difendersi, Firenze sviluppò e affermò l’idea della sua supremazia culturale. Il visitatore del tempo che giungeva in città incontrava palazzi di sbalorditiva ricchezza e bellezza, passeggiava all’ombra della cupola di una delle chiese più grandi mai costruite dall’ingegno e dal lavoro umano e poteva facilmente incontrare studiosi che parlavano greco antico, cioè una lingua creduta morta.
Il potere della narrazione - perché di ciò si trattava - cambiò gli equilibri al punto che chiunque l’avesse aggredita per depredarla sarebbe apparso come uno sconsiderato barbaro. Tutti, o molti, vollero quindi diventarne alleati, per essere illuminati dalla luce della cultura che essa emanava. Firenze e i suoi signori seppero tessere una trama di alleanze matrimoniali, di vincoli commerciali e soprattutto seppero rendere la città un luogo culturalmente sacro, cioè un centro urbano che sarebbe stato inconcepibile aggredire militarmente.
E non mantenne questo predominio allora ma anche nei secoli, come è facile constatare ancora oggi: l’ultima discendente dei Medici, Anna Maria Luisa de' Medici, morì senza eredi. Decise allora di lasciare ogni bene alla città a un’unica condizione: che niente venisse venduto o ceduto. Ecco perché Firenze è ancora oggi una potentissima capitale culturale: la cultura, nella forma dell’arte o dei libri, non l’ha mai lasciata e le ha risparmiato bombardamenti e saccheggi durante le guerre.
Ma, dicevamo, la narrazione. Anche quello è un potere. L’uomo più potente del mondo - diceva Jobs - è colui che sa raccontare le storie. Firenze e i Medici raccontarono una storia e lo fecero in maniera così persuasiva da far riverberare la sua aura ancora oggi.
La storia non è la verità, così come la storia è scritta dai vinti e ha un autore (o molti). Le storie sono insomma parziali e offrono un punto di vista, raramente o quasi mai quello dei deboli e sconfitti.
Altrove scrissi dell’Archivio dell’Universo, ossia della biblioteca immaginaria che conserva tutto ciò che non è ricordato altrove, specie nei libri di storia. La potenza della narrazione mi affascina, così come mi affascina la sua capacità di mettere in ombra o di elidere gli altri protagonisti della storia. È l’attrazione per il lato oscuro della luna, o una cosa del genere.
Michelangelo, tornando all’inizio, raccontò più o meno consapevolmente la sua storia. Decise di oscurare una parte della sua vita (della sua luna) e di portare luce e attenzione su un’altra. Oggi probabilmente accadrebbe il contrario, e l’artista che avesse avuto fortuna non ne farebbe mistero (ve ne sono molti esempi).
Una narrazione ancora più grande di quella dei singoli artisti o signori di un tempo è quella dell’intera città di Firenze. Come nota ancora Ada Palmer, la storia del Rinascimento è così potente da confondere anche i confini storici. Per spiegarlo fa l’esempio di quanto sia difficile per gli storici definirlo come periodo storico. Per quelli italiani coincide con la parabola degli Umanisti, quindi dal 1250 con Dante fino al 1450; per gli inglesi è invece Shakespeare a essere rinascimentale.
In genere, continua Palmer, il Rinascimento è usato come categoria culturale e filosofica che trae forza dalla storia per irradiare il contemporaneo, compreso quello storicizzato. Lo dimostra il fatto che gli edifici delle istituzioni hanno avuto e hanno ancora un gusto rinascimentale o classico (che è poi il gusto di molte architetture rinascimentali) che ne decreta l'autorevolezza. Non tutti, non sempre ma è indubbiamente un codice estetico ancora molto potente. La storia si perpetua per onde che superano i secoli.
A queste storie decidiamo più o meno consapevolmente di credere. e credere significa non mettere in dubbio, e avere fede (questo il potere lo sa benissimo).
Mi dilungherei troppo se parlassi della percezione della storia e di cosa la plasmi. Una forza è quella del già citato potere ma oggi si sta evolvendo - o involvendo, forse - una dinamica ancora più complessa e accelerata.
Oggi, e da molti anni ormai, siamo sopraffatti dalle storie, che siano reali, storiche e consolidate, vere o false. La storia non è la verità, si diceva, ma oggi la verità è morta o è esplosa in mille individuali verità. Ognuno ha una propria versione dei fatti che coincide con la sua visione del mondo, o con quella della parte di persone - sia una bolla, sia la parte politica o sociale - in cui si riconosce. La versione individuale è stata proiettata su quella sociale, annullando ogni distinzione.
È come se la realtà oggettiva non esistesse più, e fosse stata sostituita dalla somma delle realtà individuali.
La proliferazione di queste storie che pretendono di essere egualmente legittimate a esistere, ha prodotto l’età della post-post-verità: quella in cui la verità è individuale, circoscritta e non condivisa, e molto spesso in conflitto con le altre verità. Se ogni verità ha diritto di esistere, allora non esiste una verità. Il che potrebbe anche essere un’interessante evoluzione rispetto alla verità dominante che è in realtà un’espressione del potere, ma nell’affermarsi erode ogni valore attorno a cui una vita condivisa è stabilita.
Se ognuno ha una propria verità che considera superiore a quelle altrui, non esiste più un ordine perché non esistono valori.
Potrebbe trattarsi di un termine evolutivo interessante e quasi auspicabile, dato che annulla ogni potere centrale, ma ogni società è basata su una gerarchia e su valori condivisi. Senza una struttura in qualche modo ordinata, le geometrie dei rapporti fra le persone vengono meno, non esistendo più né regole né sanzioni.
Ed è esattamente quello che sta succedendo nella politica: la realtà non solo è continuamente riscritta nel suo contrario, ma è sovrascritta e superata da una versione diversa e più nuova, fino alla prossima. Imminente.
È morta la vergogna, che ha bisogno dell’occhio sociale per esistere e funzionare: la vergogna privata del giudizio che la sanziona non ha senso di esistere.
Non so se questo sia l’esito della narrazione frantumata in miliardi di narrazioni diverse. So che una costante temporale dell’umanità è la forza delle storie e il loro potere persuasivo. La storia di Michelangelo, quella di Firenze e quelle grandi e piccole che si sono affastellate nel flusso degli eventi. In alcune abbiamo creduto, in altre meno. Alcune sopravvivono, altre sono finite nell’archivio di quelle dimenticate.
Ada Palmer racconta che la narrazione curata delle storie di personaggi notevoli è antica. Di Machiavelli si ricorda il cinismo e la lucida spietatezza con cui descriveva il Principe e l’ideale politico del tempo. Meno nota è la sua figura privata, piuttosto distante da quella dello studioso attratto dall’osservazione del potere. Si conservano alcune lettere della madre, che si raccomandava che mangiasse verdure. Quando quella mancò, la sostituì la moglie, che cercava di non fargli mai mancare qualche porzione di quei cibi che evidentemente, concentrato nella sua dimensione cerebrale, dimenticava di assumere.
Essere animali sociali comporta non solo cercare il sostegno e il confronto altrui ma anche l’onere di curare l’immagine sociale individuale. Come si è percepiti, chi si dà l’idea di essere. Machiavelli che trascura le verdure fa sorridere ma lo restituisce in una luce più fragile e umana.
Le narrazioni non devono solo essere create, ma anche controllate. E dalle loro crepe esce una luce che, sfuggendo all’ordine del racconto, rivela. Per fortuna.
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Ho scritto un libro
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Complimenti, un bellissimo articolo. Sì, Michelangelo più che altro aveva un aspetto quasi ascetico, era una scelta, non un riflesso del suo conto bancario. Non so i dati precisi, ma credo fosse uno dei pittori più ricchi della storia(insieme a Tiziano, forse Picasso).
Le botteghe artistiche, intese come delle vere imprese, dovrebbero risalire ai tempi di Giotto, se non erro, che aveva uno studio molto prosperoso. L'artigiano depictore in quel periodo diventa IL pittore e il suo ruolo, dal decoratore marginale passa al ruolo dell'artista che esprime le idee del rinascimento, e le botteghe scoppiano. Michelangelo, Raffaello, Perugino, del Verrocchio, Giotto e tanti altri, oltre ad essere degli artisti erano dei veri e propri imprenditori.