La sensazione dell’acqua alle caviglie mescola l’illusione di controllare la risposta del corpo a una temperatura più bassa di quella ambientale e l’idea che non se ne sopporterà una più bassa.
Mi immergo poco alla volta. Bagno i polpacci, poi le ginocchia. Le cosce reagiscono bene a quel liquido reale e simbolico e soprattutto al regime termico a cui mi costringe. Poi l’acqua arriva all’inguine. Anche questo è un limite reale e simbolico: posso continuare a immergermi e superare il confine o decidere di tornare indietro. Mi immergo completamente. Il freddo supera la cute e penetra all’interno della carne come mille aghi, si espande e la tende. Poi il corpo si rilassa, forse attraversa una breve fase in cui è insensibile. Poco alla volta mi abituo alla temperatura più fredda e faccio qualche bracciata per scaldare i muscoli. Immergo la testa e registro i suoni ovattati del mondo marino: la sabbia che sfrigola, un motore di una barca in lontananza, le grida di qualche bambino. Riemergo e sono nel mondo reale, mi immergo e ritorno nel grembo da cui tutti proveniamo.
Non sono entrato in acqua: sono ritornato all’acqua, sono ritornato all’origine.
Non ho ancora fatto il primo bagno della stagione quest’anno ma so che la sensazione che proverò si ripeterà sempre uguale a se stessa: un ritorno a qualcosa di molto familiare e la conseguente constatazione che sempre lì si dovrebbe stare e che la vita sia un continuo tentativo di andare alla deriva, lontano da dove si dovrebbe essere. Eppure non si può avere nostalgia di ciò che non si è consegnato al passato e il mare è anche il luogo che contiene ogni ricordo dell’umanità, diluito nel suo liquido.
Immergersi nel mare è come ritornare alla memoria collettiva: non ha dettagli, non ha ricordi precisi e individuali ma ne è la somma e si manifesta attraverso la sensazione di essere ritornati al punto di origine e di aver compiuto un giro completo. Il giro dell’anno, verrebbe da pensare, il giro della Terra attorno al sole. Un viaggio cosmico che si ripete circolarmente e che riporta all’inizio. Mutati dall’anno trascorso, ma verso e attraverso il punto da cui tutto è iniziato. Ritornarci misura sia l'avanzare del tempo contingente ma anche l’immutabilità di quello cosmico: siamo troppo minuscoli perché il nostro tempo conti qualcosa, non siamo nemmeno un battito di ciglia dell’universo.
Il mare azzera il tempo: è sempre così e sempre così sarà. Del resto è un infinito e quindi non ha né presente né futuro e il mare che scrutiamo è lo stesso che vedeva Giulio Cesare o Marco Polo. Una massa fluttuante e cangiante, increspata o tumultuosa, screziata da onde, lucida e tesa se non c’è vento. Il mare è una materia ed è ovunque, il mare è reale e concettuale allo stesso tempo.
Mi siedo sulla spiaggia e lo osservo. Dà l’illusione di essere compreso dallo sguardo, come se guardarlo significasse capirlo ma una sua parte non è il tutto e a ben vedere è diverso a ogni porzione di superficie che si scruta. Il mare riposa lo sguardo perché lascia spazio all’immaginazione: inganna dando l’impressione di essere tutto lì, una cosa fatta di acqua e sciabordii, di rumori e silenzi e invece sta facendo spazio a ciò che non dice, a ciò che lascia formarsi nella mente di chi lo osserva.
Chiudo gli occhi e lo sento. È così immenso che le retine ne conservano ancora impressa l’immagine: è nera sotto ed è chiara e abbagliante sopra. L’acqua e l’aria assieme, divise dalla linea dell’orizzonte. È raro assistere a una chiarezza grafica del genere: due elementi primari così nettamente divisi, due masse - una grave e profonda e una leggera e leggiadra - tagliate in due da un orizzonte. C’è un’immagine più semplice di questa? Ce ne sono altre che contengono tutto e il suo opposto esposti in modo così inconfutabile?
Il mare è il luogo dell’immaginazione: guardo il mare e penso ad altro, perché il mare me lo permette. Il mare dice “Sono la realtà e sono il simbolo e il simbolo unisce ragione e immaginazione, salda ciò che è e ciò che vuol dire, unifica le cose e il loro significato”.
Quando nuoto sott’acqua ricordo ciò che non posso ricordare: il grembo materno, il suo ambiente sonoro, la violenza del reale filtrato da una membrana che protegge.
Ogni anno faccio il mio primo bagno stagionale e ripenso che dovrei farlo più spesso, che l’energia che il mare trasmette alle mie fibre è ben superiore a quella che spendo per stare a galla o a fenderne le onde. Il mare rende più di ciò che chiede. Del resto è infinito, o almeno lo è in rapporto a me, a noi. È così immenso da esserlo, ecco.
Salgo per un sentiero. La montagna è una misura, la montagna è la gravità. La montagna ti fa sentire quanto pesi e quanto sia faticoso trasportare tutto ciò che sei in forma corporea.
Non è questo l’aspetto della montagna che mi interessa, o almeno non in questo caso. Mi interessa di più la sua commensurabilità, o almeno l’illusione che ne dà. Se si guardano le cime delle montagne che si elevano nel campo visivo si ha l’illusione di misurarne la vastità. Non si sa con esattezza quanto una dista dall’altra ma di certo lo si può approssimare di più di quanto non si possa fare col mare. Due punti nel mare sono distanti 1 o un milione: non c’è relazione fra di loro, non si può capire esattamente quanto distino, quanto sia lungo l’orizzonte. L’orizzonte è una linea che non ha lunghezza, è un infinito bidimensionale.
Ma le montagne no: le montagne calmano la ragione perché la illudono di dominare una dimensione matematica. Le cose in montagna hanno una misura, sulla superficie del mare no. Una barca che sembra grande in porto è miserabilmente piccola e fragile in mare aperto.
La montagna è il luogo dei numeri e della ragione e del passare del tempo: per quanto troppo lentamente la sua morfologia muti rispetto alla vita umana, cambia di stagione in stagione: la neve sulle cime e poi più a valle, il bosco che si espande e si contrae. La montagna sembra respirare come un corpo, anche se molto lentamente.
Il mare non respira perché se lo facesse misurerebbe un tempo ma il mare, si diceva, è un infinito: non conta i secondi e i minuti perché è un infinito circolare, è un tempo uguale in ogni dimensione.
Al mare la ragione non sa che fare: non può misurare, non può congetturare, non può arrovellarsi sulle contingenze. Deve lasciare spazio all’immaginazione e può solo ritornare all’origine che dà pace: quella del liquido amniotico, quella dell’inizio di tutto in cui non si può capire ma si può immaginare.
L’immaginazione nasce prima della ragione e la ragione è un’invenzione dell’immaginazione. Non ci sarebbero la matematica e il pensiero scientifico se non ci fosse l’immaginazione, né le storie e i testi sacri se non li avesse prima immaginati un’umanità che possedeva l’immaginazione ma non ancora la ragione.
Allora ho pensato che ogni primo bagno azzera il logos e la ragione, e la fa tacere. Ogni primo bagno illumina il ricordo dell’origine simbolica e reale. Ogni primo bagno è un ritorno a quando il pensiero non era ancora organizzato, era curioso, era infinito, era potente.
Mi immergo ancora e resto un po’ sott’acqua. Apro gli occhi e vedo immagini confuse. Vedo con l’immaginazione e non vedo con gli occhi.
Sono ritornato.
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