Molti anni fa vidi La Tempesta di Shakespeare a Verona. La regia era di Peter Brook. Era una serata d’estate, di quelle dolci in cui l’aria è più leggera e la vita sembra meno densa. Non c’era scenografia, o la scenografia era il giardino rinascimentale di quel palazzo cittadino di cui non ricordo il nome e che non saprei nemmeno ritrovare.
Mi è tornata in mente in un giorno - quello in cui in genere scrivo queste righe - in cui la testa è vuota o troppo piena. A volte è difficile cogliere la differenza: una testa piena di cose (pensieri scadenze idee proiezioni futuri plausibili) può produrre un tale rumore da superare una soglia, e venir silenziata dal meccanismo della mente preposto alla sanità mentale. A un certo punto qualcosa abbassa il volume. Una condizione simile è quella della testa vuota, che è una condizione che assomiglia alla testa piena ma è ben più preferibile.
In una testa vuota ci stanno cose, in una piena non ce ne stanno più.
In questa testa - la mia - si è fatto spazio questo ricordo: una sera d’estate, e La Tempesta di Shakespeare.
Ho cercato nel mio archivio la parola “Tempesta” e ho trovato diverse ricorrenze. Una di queste era proprio una citazione di Shakespeare, proprio della Tempesta (nessuna sorpresa). Diceva
L’aria alita sopra di noi molto dolcemente.
(William Shakespeare, La Tempesta)
L’aria alitava appunto sopra di noi, dolcemente. Ho usato “dolce” per dire di quella sera d’estate a vedere La Tempesta e ho scoperto poi che anche Shakespeare definì così l’aria che aleggiava sopra i suoi personaggi. Ovviamente è un caso e, anche statisticamente, è abbastanza plausibile descrivere una sera d’estate come “dolce”. Però mi ha fatto riflettere su quello che definisco, in maniera neanche originale, il “capitale delle conoscenze”. In particolare quello personale.
Le conoscenze - le cose che sappiamo - sono legate alla memoria. La memoria è il sistema che le conserva. Un archivio digitale permette di accedervi partendo da una semplice parola, come “tempesta”, appunto.
Difficilmente il ripeterla fra me e me mi avrebbe riportato alla mente quei versi: versi uditi dalle mie orecchie e conservati in qualche parte del mio cervello ma di certo non accessibili con la precisione di una stringa di ricerca.
Le nuvole pensavo si aprissero e mostrassero ricchezze, pronte a cadere su di me.
(William Shakespeare, La Tempesta)
La memoria è forse una nuvola, ma è dentro di noi. Una nuvola è fatta di un’unica materia - il vapore acqueo - e al suo interno non se ne distinguono le parti. Una parte della nostra memoria è puro vapore acqueo: la vedo, so che contiene cose che sono connesse solo dalla loro appartenenza alla materia di cui è fatta una nuvola ma non riesco a isolarne le parti.
Se mi fossi chiesto cosa suscitava nella mia memoria la parola “Tempesta” avrei pensato a quella di Shakespeare ma non di certo ai versi che avevo annotato un giorno di molti anni dopo, e li avevo annotati per il solo fatto che per un certo periodo li usavo come titoli di alcune mie foto. Eppure quei versi li avevo sentiti una sera di decenni prima a Verona, e forse l’avevo pure letta La Tempesta - ora non ricordo - e da qualche parte nella memoria conservavo almeno le ombre di alcuni suoi versi. Senza poterle però suscitare.
Tutti i pensieri come in un sogno son paralizzati.
(William Shakespeare, La Tempesta)
Annoto il più possibile tutto, o quasi. Quello che faccio, quello che vedo, leggo, osservo. Come molti della mia generazione, sono nato analogico e ho vissuta la transizione alla digitalizzazione. Oggi tutto quello che faccio, scrivo, disegno, fotografo, ascolto, registro, annoto è digitale.
Se da un lato sono consapevole del rischio che un archivio del genere - fragile ed etereo, destinato a supporti conservati in Nevada o in Germania o comunque materialmente lontani - sia un giorno irrimediabilmente perso, dall’altro mi rendo conto di quanto potenziale possa esprimere nel tempo corrente.
Ora è accessibile, riassemblabile, ricomponibile, ricombinabile. Prima non lo era: prima era solo un magma informe.
Ho deciso di digitalizzare la mia conoscenza analogica.
(questo non può averlo scritto Shakespeare)
Si dirà: non è una gran novità, e infatti non lo è. Lo è di più ciò che ormai si può fare con questa conoscenza.
Sentivo giorni fa un’intervista a
, uno scrittore che con Google Labs ha dato forma a NotebookLM, un sistema evoluto di annotazione che sfrutta - inutile specificarlo - l’AI per potenziare le note: organizzandole, approfondendole, suggerendone corollari, trovando nuovi modi di collegarle fra di loro. Il suo lavoro è una risposta plausibile al cosa fare delle conoscenze che la memoria umana ha prodotto e conserva. Da secoli la questione non è la produzione e forse neanche la conservazione: la scienza avanza, i libri si scrivono e l’umanità ha inventato diversi modi per conservare questo genere di memorie. Il fatto è che - come nel mio caso - rischiano di restare allo stato gassoso, cioè come nuvole: che a volte oscurano la luce del sole più che illuminare nuovi brani di realtà.Col vostro aiuto ho coperto il sole a mezzogiorno.
(William Shakespeare, La Tempesta)
Oggi abbiamo la possibilità di trovare queste connessioni. Io ho la possibilità di digitare in Notion “tempesta” e di sapere quante ricorrenze ne registra il mio archivio personale. Posso costruire associazioni casuali fra di loro vedendole elencate in forma di lista, posso tornare con la memoria a Verona e a una foto che intitolai con un verso di Shakespeare. Molto presto (già oggi, con sistemi come NotebookLM) posso osservare le connessioni che un sistema di AI suggerisce. È una creatività algoritmica ma è un nuovo tipo di generazione di conoscenze con cui sarà opportuno imparare a convivere molto presto. A dirla tutta non la considero una convivenza forzata ma piuttosto un’opportunità. Non saprei come altrimenti trovare certe connessioni che non riuscirei a vedere in altro modo. Quello che io posso fare è registrare e scrivere, memorizzare e poi dimenticare.
La memoria umana è limitata e fallace, mi pare evidente. I ricordi sono esposti alla superficie per qualche tempo e poi si allontanano sempre più all’orizzonte. O sprofondano verso il buio dei fondali del liquido che li contiene.
La mia biblioteca era grande come un ducato.
(William Shakespeare, La Tempesta)
La memoria digitale è una materia solida e compatta: tutto ricorda, tutto mantiene in superficie, tutto vede. L’AI - per la prima volta nella storia dell’umanità - può interrogarne ogni sua parte e cercarne una logica. Non è una logica umana perché le connessioni che può fare sono prodotte da una macchina. Per un naturale timore e istinto di conservazione la consideriamo una minaccia ma credo sia - almeno in questa sua rappresentazione - una nuova possibilità.
Un giorno vorrei capire perché ho letto proprio quel libro e ho riascoltato centinaia di volte le Partite di Bach (anche ora, mentre scrivo). So che questi frammenti indicano una via ma per ora riesco solo a esserne attratto: devo leggere, devo ascoltare.
Per questo curo con scrupolo il mio archivio personale: sono diventato il bibliotecario di me stesso e alla fine ho capito perché: perché mi sto cercando in mezzo a quegli appunti.
Inoltre
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Ci penso spesso all'essere curatore di me stesso, e continuo a cercarmi lì dentro alle annotazioni. Grazie per averlo detto con questa bella metafora bibliotecaria.
E c'è chi come Borges considerava la biblioteca il labirinto per eccellenza, quando dopo essere praticamente diventato cieco (era il 1955) fu nominato direttore della Biblioteca Nacional di Buenos Aires: "[…] io, che mi raffiguravo il Paradiso sotto al forma di una biblioteca" (Poesia dei Doni, El Hacedor, 1960).
Sono contento di essere capitato nei labirinti delle tue osservazioni. È stata una gran bella scoperta.